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Il 14 gennaio in molti hanno ricordato la nascita del regista Stan Brakhage, morto nel marzo 2003 all’età di 70 anni.
Quando si parla di Brakhage nella mente si affollano milioni di idee sul cinema non narrativo, quel cinema che si concentrava sulle qualità intrinseche del mezzo come la trama del film, l’uso di una telecamera soggettiva e un editing frastagliato (jagged per l’appunto).
Un credente della superiorità del visivo rispetto al suono, Brakhage ha tentato di presentare l’occhio come fonte di immaginazione prima che potesse diventare corrotto dalla rappresentazione.
Come in tutta la grande arte post-moderna, il legame tra arte e significato nei film di Brakhage risultava compressa in modo che lo spettatore potesse partecipare al processo di creazione.
Nel suo film più noto, Mothlight, raccolse ali di falena e petali e li pressò tra le strisce della pellicola 16mm per poi proiettarle direttamente a video.
Attraverso questa idea di pezzi di materialità applicati alla stessa pellicola, Brakhage potè contare sull’engagement del suo pubblico.
Per lui la produzione di un film significava trasferirsi all’interno dello stesso in uno stato di trance. Giammai con un intento filosofico ma solo per rappresentare il suo ideale di design cinematografico.